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Ombre nel buio poeticando su questo nostro essere infinito

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Ombre nel buio … poeticando su questo nostro essere infinito.

Più volte, dopo essermi assopito per un breve istante, apro gli occhi e mi chiedo se non sia già l’indomani o se invece non sia il prolungamento astrologico di ieri, tanto i giorni hanno per me lo stesso colore e il medesimo incanto. Quale che sia l’ardore per la bellezza perseguita o inconsciamente suscitata, improvvisamente evapora, sostituita da ore d’incolmabile astrazione e nulla più m’importa se l’orologio al posto del tempo scandisce la luce o l’oscurità che l’attende. Giunto alla fine del giorno credo di possedere una certa cognizione per cui ad ogni sorgere dell’alba segue un voluttuoso tramonto che dopo un ultimo abbaglio di luce s’accompagna al buio di un’oscurità ignota che mi spaventa e affascina allo stesso modo.
Vedo così spalancarsi davanti ai miei occhi attoniti, lontani spazi di profondo chiarore, baluginii di un’aurora appena intravista e ancora inviolata, che nel suo profondersi dentro la notte mi restituisce all’opale chiarore d’una vaga certezza. Finché la mia ferma aderenza alla realtà recupera alla dissimulata voce del silenzio mattutino, la sua chiarezza oggettiva, la prospettiva del passato nel presente onde la vita finisce per essere intimamente avvolta nell’immensità che mi sovrasta, nella parvenza virtuale di una qualche congiunzione cosmica. E non m’importa dar seguito all'illusoria assenza del passato, né di contribuire ad affermare il presente, effimero e comunque passeggero, quanto di addentrarmi nel profondo d’una nuova identificazione con la Luna che mi viene incontro per un ultimo saluto.
Ma le parole s’affacciano labili alla mia mente e presto svaniscono sulla scia di un miraggio che pian piano si disperde negli spazi inviolati di un possibile 'altro' ch’è in me, nel costante sdoppiamento di un ‘io’ diverso che si dissolve nella polvere cosmica di un vortice astrale che mi coinvolge e stravolge. Così, in quell’andare ‘oltre’, che sempre si rivela come la mera possibilità di valicare l’invalicabile, avanza il desiderio di guardare attraverso gli uadi segreti del tempo e oltrepassare lo spazio infinito, seppure non ignori che da qualche parte dev’esserci una fine per quanto imprevedibile essa sia. L’immediato desiderio di spalancare il velo ignoto del cielo spazia nella mia mente nella ricerca vana di catturare la segreta essenza di un ‘tutto’, quasi fosse il prolungamento conscio della vita inconscia, scorgo molteplici Lune che s’affacciano e vanno a spasso nell’universo, quasi da poterle afferrare, se solo lo volessi.
Per quanto, nel timore d’infrangere la pacata immensità di quel cielo, là dove talvolta l’anima s’invola rivelando a se stessa la propria grandezza e la propria iniquità, non oso svincolare il mio pensiero dal seguire la vocazione di perdermi nella vastità cosmica che si dilata a dismisura, sì che la materia si presenta nuda davanti all’invisibile e s’apre a una lenta genesi. Onde accecato, nell’incedere nella nuova realtà vengo proiettato in una vaga sensazione di prosieguo che sfugge alla materia corporea che mi compone, nell’inconscio della mia esistenza. Sì che la mia immagine riemerge nella consapevolezza di quel silenzio infinito che porta alla solitudine estrema, al vuoto assoluto che precede il vago sentore d’una eternità obliata, come sul punto di approdare alla pura essenza del divino.
Almeno per un istante credo di assistere al precipitare epifanico della forma oggettiva dello spirito, di ciò “che non è mai ma che è per sempre”, come di un precipuo concetto di bellezza che trascende nel divenire del sogno e dell’immaginazione, ed occupare infine ogni spazio dentro e intorno a me nella vacua realtà del nulla. E mentre tutt’attorno ogni cosa si mescola impercettibile, discopro nell’intimo timore che mi coglie la luminosità di un’altra Luna lontana, immaginifica e immensa, diversa dalla vecchia e misteriosa musa dell’innamorato e del poeta. Allorché, senza neppure che me ne renda conto, vago smarrito entro quella possibile verità 'altra' che posta al di sopra di ciò che sono, porta all’intima essenza di quell’io che vaga leggero fra le stelle più lontane, partecipe silenzioso del mistero dell’universo e della sua tranquilla infinitezza.
Ma nell’impossibilità di condurre lo sguardo oltre lo scintillio del firmamento che mi compete, procedo alla ricerca di quella misura astratta che anzitempo deve aver visto l’uomo, immergersi nel movimento cosmico degli astri. Sì che d’un tratto, rimango a contemplare il fuoco di ramaglie al di sotto della grande cupola della notte, sospesa com’è nell’immutabile e umanissima certezza del creato. In verità non ho mai sottovalutato il desiderio inestinguibile di senso, lo spazio irriducibile dell’interpretazione, la parola come superamento del silenzio, come neppure ho mai pensato a una concezione del tempo che propendesse per un atteggiamento diverso nei confronti del presente o del passato. Piuttosto, che rendesse pensabile una diversa costruzione del futuro, ove il tempo non fosse semplicemente memoria di forme, o apparenza di significato, bensì incontro di realtà e immaginazione, ripetizione volontaria dell’inconscio ch’è in me, reminiscenza di quel presentimento del fantastico immaginario che si annida in ognuno di noi, abbagliato da tanta bellezza.
Come certamente occorse al grande viaggiatore Jean Potocki sul finire dell‘800 davanti a ciò che non era mai cambiato nell’astratta sensazione del vissuto, la cui sembianza figurativa del passato diventava ripetizione di ciò che siamo, anch’io mi sono posto la domanda: “quale anima è così inaccessibile all’ammirazione da potersi sempre difendere da questo esaltato sentimento che è l’immaginario?”. Ma la risposta ahimè non mi ha raggiunto se non nella matura età, in cui ho ritrovato me stesso, allorquando, riscoprendo la memoria antica, l’ho sentita farsi presente nella realtà del tempo in cui vivo, quale dimora essenziale di ciò che sono. Seppure, in virtù di ciò che prevarica il mio segreto sentire, tendo a trasportare l’impostazione conoscitiva al di sopra dell’orizzonte cosmico che mi è dato, consapevole che ogni mia azione trova una diversa ragione d’essere, in cui l’immaginario si esprime e si rappresenta secondo le tendenti aspettazioni alchemiche e metafisiche delle premesse, onde né il desiderio di scienza né l’attenzione del filologo, hanno mai smentito il manifestarsi poetico del ‘limine’, in cui ‘l’altro’ ha trovato la sua affermazione sulla ‘soglia’ di quell’infinito cui di fatto tutti noi aneliamo, fissi davanti alla solitudine dell’universo, che una guerra oggi inconcepibile porterà alla dissoluzione, di ciò che rimane …

… se mai qualcosa ne resterà di noi.


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